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Regicidio: interpretazioni di un gesto

Regicidio: interpretazioni di un gesto

Il 22 maggio 1901 Gaetano Bresci è rinvenuto cadavere nella sua cella. Impiccato, suicida secondo i referti ufficiali ma, insinuano ormai le fonti più disparate, “con tutta probabilità, suicidato”.
“Melius erat ei si natus non fuisset homo ille”: questa l’annotazione, a memoria perpetua – si dice – ed obbrobrio sempiterno, apposta dal canonico sul certificato di battesimo dell’infame assassino del Re Buono.
Anarchico di 31 anni nativo di Coiano (Prato) da tempo emigrato a Paterson nel New Jersey, Bresci era rientrato in Italia nel maggio 1900. Tiratore abilissimo, con sé portava (inspiegabilmente) una macchina fotografica e una pistola Remington a cinque colpi. Il 29 luglio, dopo alcuni giorni trascorsi presso i fratelli e gli amici pratesi, giungeva a Monza dove re Umberto stava trascorrendo un breve periodo di vacanza nella villa reale. Quella stessa sera, a conclusione di un saggio ginnico organizzato in suo onore, il sovrano avrebbe subito il terzo attentato alla sua persona, quello fatale. L’anarchico sparava tre colpi a distanza ravvicinata contro il re che moriva nel giro di pochi minuti. Avrebbe dichiarato poi che il suo gesto era la risposta alla violenta repressione dei moti milanesi del 1898 contro il caro-pane: per le vittime tutte invendicate dell’altra Italia.
L’assassinio di Umberto I suscitò, almeno nell’immediato, un diffuso senso di colpa e desideri incontenibili di espiazione almeno nei ranghi dell’opposizione parlamentare. Repubblicani di lungo corso come Giovanni Bovio manifestarono ossequio lealista nei confronti di casa Savoia. L’“Avanti!” qualificò l’attentatore come “pazzo criminale”. Così, all’improvviso, si dimenticava ogni roboante esaltazione dell’omicidio politico, tipica della retorica nazionalista. Le approvazioni entusiaste del passato per il gesto di Oberdan o per quello di Felice Orsini, mancato uccisore di Napoleone III, sono presto rimosse. Al processo del regicida l’avvocato della difesa Francesco Saverio Merlino – esponente di primo piano del socialismo liberale e democratico italiano – argomentò che la ragione vera dei tentativi fatti da alcuni anarchici di sopprimere il re andasse invece ricercata nella situazione insopportabile creata dall’assolutismo e dalla tirannia sabauda, dalla vessatoria proibizione imposta loro di propagandare le idee libertarie di solidarietà e uguaglianza.
Sull’azione del Bresci – a sua volta “suicidato” e colpito dalla vendetta monarchica – non sono mancati in sede politica e storiografica giudizi articolati e positivi. Ne esaminiamo alcuni fra i più interessanti e, per certi versi, sorprendenti.
“Centinaia di italiani popolano oggi le carceri patrie per titolo di apologia con l’unico risultato di accreditare l’opinione che tutto sommato il lutto nazionale sia un’imposizione e la morte di Umberto abbia soddisfatto larga parte del popolo” (Filippo Turati, « Critica Sociale » 16 agosto 1900).
“Massima delle classi dirigenti non è di guarire i mali che ci guastano ma di colpire inesorabilmente coloro che li rivelano” (Cesare Lombroso, « L’Adriatico » 24 settembre 1900).
“Se Alessandro e Umberto non hanno meritato la morte, assai meno l’hanno meritata le migliaia di caduti sotto Plevna e in Abissinia” (Leone Tolstoj, Per l’uccisione di Umberto, 1913).
“Nella mano ferma e nell’occhio sicuro dell’anarchico individualista quasi simbolicamente prendevano forma la volontà e la forza delle masse irosamente elevate a protestare contro il potere dello stato italiano oppressore, affamatore, fucilatore e sbirro” (Palmiro Togliatti, « Il Comunista » 1 agosto 1922).
“Umberto faceva il tiranno nel senso classico della parola tenendo mano allo strangolamento della libertà… La memoria di Bresci rimane circondata da un’aureola di simpatia e gratitudine nella coscienza di molti italiani… La grande maggioranza del Paese trovò che Umberto quella palla di revolver non l’aveva rubata” (Gaetano Salvemini, Terrorismo e attentati individuali, 1947).
La figura di Bresci, assurta a simbolo dell’insubordinazione popolare e della rivolta contro l’oppressione, rimarrà a lungo scomoda. Perfino Benedetto Croce sembrò aderire alla congiura del silenzio scegliendo di omettere il nome del regicida nella sua fondamentale opera “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”.
All’indomani dell’attentato di Monza l’anarchico Errico Malatesta aveva proposto una lucida analisi sull’accaduto:
“Un altro fatto di sangue è venuto ad addolorare gli animi sensibili… ed a ricordare ai potenti che non è senza pericoli il mettersi al di sopra del popolo e calpestare il grande precetto dell’eguaglianza e della solidarietà umana. Gaetano Bresci, operaio ed anarchico, ha ucciso Umberto re. Due uomini: uno morto immaturamente, l’altro condannato ad una vita di tormenti che è mille volte peggiore della morte! Due famiglie immerse nel dolore! […] Ed ogni volta che i capitalisti ed i governi commettono un atto eccezionalmente malvagio, ogni volta che degli innocenti sono torturati, ogni volta che la ferocia dei potenti si sfoga in opere di sangue, noi deploriamo il fatto, non solo per i dolori che direttamente produce e per il senso di giustizia e di pietà in noi offeso, ma anche per lo strascico di odio che esso lascia, per il seme di vendetta che esso mette nell’animo degli oppressi […]”  (« Cause ed effetti, 1898-1900 », Londra, n.u. settembre 1900).

Gaetano Bresci: un pratese
Nato il 10 novembre 1869 da una povera famiglia, il piccolo Gaetano, apprendista in una fabbrica per la lavorazione della seta, frequenta la locale Scuola di Arti e Mestieri. A 15 anni è già un militante sovversivo e bazzica nei circoli libertari e nelle sedi delle associazioni del nascente movimento operaio locale. Orfano di entrambi i genitori, divenuto operaio tessile, si distingue nell’organizzazione dei primi scioperi. Schedato come anarchico è colpito dalla legislazione crispina e inviato al domicilio coatto insieme ad altri 52 suoi concittadini. Rientra a Prato dopo aver scontato un anno a Lampedusa. In poco tempo si trova costretto ad emigrare in America, dove giunge nel 1898.
A distanza di decenni dal regicidio, le autorità locali continuano a impegnarsi allo spasimo per il riscatto di una città così disonorata dal gesto di un suo figlio.
Intanto il vestito borghese indossato da re Umberto quella sera a Monza, “bucato” da un pratese, era finito a… Prato – narrano le cronache – in una balla di cenci.

Un gesto “collettivo”? (bibliografia essenziale)  
Su Bresci esiste una vastissima letteratura. Copiosa la pubblicistica edita negli anni Ottanta del secolo scorso in occasione della costituzione a Carrara di un Comitato “Pro Bresci”, promosso da Ugo Mazzucchelli e da altre personalità cittadine, per l’erezione di un monumento all’attentatore poi realizzato. Per un efficace inquadramento della figura e del significato del suo gesto è interessante consultare la scheda biografica, redatta da Maurizio Antonioli e Giampietro Berti, pubblicata nel Dizionario biografico degli anarchici italiani, BFS, 2003, vol. I, pp. 252-255. In essa si analizza anche la questione, complessa, delle responsabilità “collettive” del regicidio:
“…Bresci assume ogni responsabilità, nega ogni complicità e non chiama in causa nessun militante. Il che porta a concludere che, se anche l’attentato, ha avuto una genesi ‘collettiva’, il suo significato rimane sempre individuale, proprio secondo le modalità che fin dall’inizio sono concepite per la sua attuazione. Naturalmente queste doverose considerazioni […] non possono chiudere il discorso su Bresci per due ordini di motivi. In primo luogo perché l’uccisione di Umberto I si inserisce in un contesto più ampio in cui da parte di molti anarchici, di Malatesta in particolare, l’istituzione monarchica viene vista come il primo ostacolo da eliminare per avviare un processo rivoluzionario, magari di concerto con i repubblicani […] Secondariamente perché il gesto di Bresci non si consuma nei brevi istanti della morte del sovrano, ma una sua storia che si prolunga nel tempo e nella memoria a tal punto che la biografia dell’immagine, di come è stata tramandata, riproposta, rivissuta, è forse più importante che non quella di Bresci stesso…”.

Inoltre – oldies but goldies – sono senz’altro da rileggere i vecchi testi:
– A. Petacco, L’anarchico che venne dall’America, Mondadori, Milano 1969;
– P. C. Masini, Storia degli anarchici nell’epoca degli attentati, Rizzoli, Milano 1981;
– G. Galzerano, Gaetano Bresci. Vita, attentato, processo carcere e morte dell’anarchico che “giustiziò” Umberto I, Galzerano editore, Casalvelino, 2001 (2^ edizione ampliata).
Testi fondamentali editi di recente:
– M. Ortalli, Gaetano Bresci, tessitore, anarchico e uccisore di re, Nova Delphi libri, 2011;
– “Nel fosco fin del secolo morente”. L’anarchismo italiano nella crisi di fine secolo. Atti del convegno di studi storici (Carrara, 29 ottobre 2011), a cura di G. Sacchetti, Biblion edizioni, 2013;
– E. Tuccinardi, S. Mazzariello, Architettura di una chimera. Rivoluzione e complotti in una lettera dell’anarchico Malatesta reinterpretata alla luce di inediti documenti d’archivio, Mantova, Universitas Studiorum, 2014.

di  Giorgio Sacchetti

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